Per una pastorale dell’unità

Prendendo le mosse dall’attuale «crisi» dei metodi pastorali di fronte alla sfida assillante della scristianizzazione, l’autore tenta la formulazione di una proposta alla luce dell’«esperienza pastorale» delle prime comunità cristiane. (da gen’s 2-3/1987, pp. 41-50).

La crisi pastorale dei sacerdoti oggi

Si dice che oggi il sacerdote ha superato la crisi di identità personale, crisi che si esprimeva con le domande: chi sono? che senso ha il mio sacerdozio? non sono forse un anacronismo in questa società post-cristiana? Sembra però, in effetti, che proprio la situazione attuale della nostra società che si va secolarizzando e desacralizzando metta in evidenza la necessità della presenza di persone che salvino l’umanità dal pericolo di quell’angoscia esistenziale, diffusissima anche se spesso mascherata, che ha la sua causa prima nella perdita appunto del sacro e dei valori ad esso legati e, in particolare per il nostro mondo occidentale, della perdita delle “radici” cristiane e dei valori svelati da Gesù. Se le parole di Gesù fos­sero oggi anacronistiche, se i valori proposti dal Vangelo non fossero più “validi” oggi, noi saremmo veramente dei gabbamondo. Ma l’angoscia esistenziale, sintomo psicologico di una malattia spirituale, sta piuttosto ad indicare che non solo qualcosa di vitale si è perso, ma che non c’è possibilità di sostituirlo con altro. Delle persone perciò che contro ogni apparente speranza continuino a proclamare con la vita e con le parole che la verità e la felicità stanno da un’altra parte, queste persone se non esistessero più sarebbero da reinventare. La crisi attuale di molti sacerdoti è piuttosto un’altra, che possiamo chiamare ministeriale o pastorale e che si esprime con le domande – anch’esse angosciose – «cosa posso fare io sacerdote per l’umanità che mi circonda quando penso che, malgrado tutti i metodi pastorali inventati e applicati, i cristiani conti­nuano a scristianizzarsi e i non cristiani a vivere come se noi non esistessimo?».

I convegni su questo problema si susseguono a tutti i livelli, diocesani, nazionali e internazionali. Cosa possiamo dire noi? Qualcosa tentiamo di dire, e se non altro servirà a mettere in comune un’esperienza di più. Ma ho l’impressione che toccheremo un punto importante sul quale vale la pena di riflettere.

Diamo uno sguardo ad alcuni metodi pasto­rali oggi in atto. C’è chi insiste su una pasto­rale sacramentale e della catechesi (pastorale che è stata un po’ alla base di tanta azione missionaria: ammaestrare e battezzare) e chi si orienta verso una pastorale dei bisogni, una pastorale cioè che vuol partire dalle esigenze più vive dell’umanità contemporanea, come l’esi­genza di socialità, di universalità, di esperienze esistenziali.

C’è chi propone una pastorale della convin­zione: occorre formare cristiani decisi median­te un tirocinio serio e prolungato in modo che siano capaci di resistere e reagire alla pressio­ne di un mondo post-cristiano; e chi suggerisce invece una pastorale più aperta, orientata ad interessare ed accogliere tutte le persone di buona volontà e unirle insieme mediante obiet­tivi positivi accettati da tutti.

Si parla anche di pastorale di ambiente: solo se l’individuo fa delle scelte esisten­ziali radicali riesce a trasformare l’ambiente.

Altri insistono sul rinnovamento dei metodi pastorali, cercando di adottare tutte le scoper­te della tecnica, dei mass-media, ma anche della psicologia e della sociologia sfruttandole per la diffusione del Regno di Dio; oppure parlano di “pastorale della fede” (quello che conta è il contenuto non l’imballaggio): bisogna appro­fondire la fede, allora si costruisce sul sodo.

Tanti capiscono che occorre passare dalla «pastorale dell’acco­glienza di coloro che cercano la Chiesa e le sono fedeli alla pastorale dell’andare verso coloro che non vengono».

«A una pastorale residenziale o domiciliare deve subentrare una pastorale di testimonian­za che dovrà trovare nuove forme espressive».

Cerchiamo ora di raggruppare questi metodi pastorali visti nelle loro finalità immediate: vi troviamo due gruppi di proposte fondamentali. Uno è teso ad assicurare ai fedeli la vita spirituale (in vista della salvezza ultraterrena) basata sull’ortodossia intellettuale e sulla pra­tica dei sacramenti (pastorale sacramentale, della catechesi, della convinzione, della perso­na, della fede) quasi indipendentemente dalle esigenze psichiche e sociali che essi possono avere, ossia quasi che lo spirituale e l’umano siano due categorie indipendenti, quella spiri­tuale più nobile e quella umana meno nobile e perciò anche sacrificabile.

Il secondo gruppo è teso a rivalutare piutto­sto la categoria dell’umano e del sociale come strada per arrivare anche agli interessi spiri­tuali (pastorale dei bisogni, di ambiente, di ac­coglienza, ecc.).

Un’altra osservazione che si può fare è che queste vie pastorali terminano generalmente ai singoli individui oppure, se tendono a fare di essi una comunità spirituale, questa in genere non va oltre la partecipazione collettiva ai mo­menti del culto e in particolare alla partecipa­zione eucaristica. E si può dire in generale che tutte le forme associative sono motivate più da finalità estrinseche (caritative, missionarie ecc.) e dalla soddisfazione dei bisogni psicologici dei membri, che non dalla novità cristiana porta­ta da Gesù.

II «metodo» di Gesù

Quale sia questa “novità” cristiana si può sintetizzare così: fare sulla terra l’esperienza del regno dei Cieli. Riconsideriamo un attimo l’esperienza degli apostoli con Gesù, e delle comunità cristiane descritte dagli Atti o dalle Lettere: è chiaro che il mistero fondamentale rivelato da Gesù è che Dio, Amore, è trinità di Persone distinte, che sono una cosa sola. «Come tu Padre sei in me e io in te, così siano anch’essi una cosa sola in noi...». Penso che quell’in noi ha tratto spesso in inganno facendoci pensare che i singoli, una volta rinati in Cristo per il battesimo, siano per ciò stesso una cosa sola in Lui. E spiritualmente è vero, ma è anche vero che ciò può non portare alcuna conseguenza sul piano dei rapporti sociali, tanto da far dimenticare ai cristiani di essere membra di uno stesso Corpo. Dio però non muta i rapporti sociali ponendosi come termine esclusivo di infiniti rapporti individuali, quasi annullando sul piano religioso quella socialità che è caratteristica della persona; anzi, «come puoi dire di amare Dio che non vedi, se non ami il prossimo che vedi?». Ora le prime co­munità cristiane hanno percepito perfettamen­te il messaggio, e l’hanno vissuto socialmente, così da diventare un cuore solo e un’anima sola. Il mistero insomma di Dio-Trinità lo hanno tradotto in vita non limitatamente alla vita dello spirito, bensì anche nei rapporti sociali: la comunione dei beni, ad esempio, è la verifi­ca effettiva di quanto essi credono e procla­mano. Per essi aderire alla fede e non agire se­condo il modello proposto dalla fede è menzo­gna che porta alla morte: ma anche qui non si tratta solo di morte spirituale, bensì anche di morte psicologica e di morte ecclesiale.

La fede vissuta, per contro, vivifica non soltanto l’anima, bensì tutto l’essere umano, appagandone appieno la socialità e donando una pienezza di gioia spirituale e psichica che persiste anche nelle persecuzioni e nelle torture. I primi cri­stiani li vediamo effettivamente come persone nuove che costituiscono sulla terra nuovi rap­porti e una nuova società. Negli Atti si nota questa loro ebbrezza creativa; la vita ha uno scopo: trasformare una società fatta di indivi­dui giustapposti e incomunicanti in una comu­nità che si modella sul tipo originario della comunione divina. Ma lo possono fare perché essi stessi già incarnano sulla terra quella co­munione trinitaria.

E si nota allora che lavorare, soffrire e persino morire per questo obiettivo non soltanto coincide col farsi parte­cipi del piano di Dio sulla singola persona e sull’umanità intera col raggiungimento della salvezza nell’al di là, ma significa trovare anche umanamente l’espressione massima delle proprie potenziali­tà con un senso di completezza personale che fa sperimentare in qualche modo di vivere la stessa avventura di Gesù, l’uomo-Dio.

I cristiani delle nostre parrocchie sono for­mati, individualmente e come comunità, a dare questa immagine sociale della Chiesa? Con tutto il tempo che spendiamo nel tentare di dare loro motivazioni e giustificazioni razionali alla fede che professano e nel curare sacramentalmente la loro anima, non potremmo dare uguale importanza a far loro sperimentare nella pratica la nuova socialità svelataci da Gesù nella sua azione svolta pazientemente con i Dodici, portandoli a fare l’esperienza del Regno di Dio? Essi hanno potuto dire: «Ciò che ab­biamo visto con i nostri occhi e udito con le nostre orecchie e toccato con le nostre mani, questo vi comunichiamo».

Dodici soli, per tutto il mondo. Ma ognuno di loro ripeterà la stessa esperienza fatta con Gesù: dovunque vanno si fermano a creare un nucleo di cristiani finché anch’essi non sperimentano la vita del cielo. Le varie Chiese si formano attorno a questi nuclei di persone co­scienti di essere i rappresentanti di una nuova socialità.

La vita cristiana si va strutturando su cate­gorie nuove: il principio del potere viene inte­grato e ribaltato dal principio del servizio. In seno ad essa si vanno distinguendo i carismi e i ministeri: sono un servizio per la crescita di tutto il corpo; un servizio – potremmo definirlo – specializzato.

Aspetti di una vita umano-divina

Come alla luce del Risorto gli apostoli vedevano illuminarsi tutto ciò che Gesù aveva detto e fatto, così – proporzioni fatte – alla luce dell’esperienza del nostro Mo-vimento abbiamo potuto intravedere già nella comunità degli apostoli e discepoli di Gesù i diversi aspetti della loro vita quotidiana basati sui parametri della nuova socialità cristiana. Li cito appena:

Concetto di economia e lavoro: gli apostoli lavorano («per totam noctem laborantes nihil coepimus» – Lc 5, 5); ciò che supera le necessiti viene dato ai poveri («Il profumo... si poteva vendere e darne il ricavato ai poveri» – Mt 26, 9; «Ciò che sopravanza datelo in elemosina» – Lc 11, 41); ma soprattutto è presente il concetto della provvidenza del Padre («Non vi preoccupate... poiché il Padre vostro sa ciò di cui avete bisogno» – Mt 6, 8, così come nutre anche gli uccelli» – Mt 6, 26).

Concetto di apostolato: Gesù manda i discepoli a due a due. Commenta san Leone Magno: «Poiché bisogna essere almeno in due per attuare l’amore reciproco». E così essi possono annunciare ai pagani: «Il Regno di Dio è giunto fino a voi» (Lc 10, 1-9). Dimensione dell’apostolato: portare la Buona Novella a tutte le genti.

Concetto di vita spirituale: vivere le beatitudini – Farsi piccoli come bambini – Non esultare per il potere spirituale, ma perché i nostri nomi sono scritti in Cielo, ossia perché si è già entrati nel Regno deì Cieli, nella comunione col Padre e col Figlio nello Spirito (cf Lc 10, 20-23).

Concetto di corpo e salute fisica e spirituale: Gesù che guarisce i malati nel corpo e nello spirito; Gesù che ha compassione della folla affamata e la sfama; anche gli apostoli guariscono; Gesù dice agli apostoli: «Date loro voi stessi da mangiare». Ma anche: «La vita è più del cibo», per cui «cercate piuttosto il cibo che non perisce». Eucaristia: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna».

Concetto di armonia cultuale e ambientale: è la semplicità. «Guardate i fiori del campo... neppure Salomone in tutto il suo splendore ha mai raggiunto la loro bellezza.  La casa di Dio è luogo di preghiera e non di commercio; Gesù manda due apostoli a preparare la sala per mangiare la Pasqua. Ma è anche bellezza spirituale: «Se il tuo occhio è semplice, tutto il corpo è luminoso».

Concetto di sapienza. L’unica volta che Gesù parla di sapienza, la attribuisce a chi ascolta la Parola e la mette in pratica, poiché edifica sulla roccia (cf Mt 7, 24). La sapienza è conoscere il disegno di Dio (cf Mt 16, 23).

Concetto di comunione e comunicazione: «Poiché tutto ciò che ho udito stando col Padre io ve l’ho fatto conoscere» (Gv 15, 15). La comunicazione di Gesù è totale. Gli apostoli devono fare altrettanto «Insegnate loro tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28, 20). Comunicazione di esperienze: così dopo il ritorno dei 72 discepoli; la Maddalena corre ad annunciare la tomba vuota; i discepoli di Emmaus rifanno due ore di strada per comunicare agli altri che hanno visto e riconosciuto Gesù...

Questi aspetti, che regolano una vita “a corpo” impegnando tutta la persona nei confronti di tutta la comunità, letteralmente esplodono nella vita dei cristiani descritta negli Atti e nelle Lettere. Se si leggono sotto questo angolo visuale, si scopre che essi inquadrano la nuova vita ecclesiale che appare ad un tempo umana e divina. È una vita che non può non venire notata, perché troppo diversa da quella del mondo. Mi pare inutile esemplificare, tanto noti sono i fatti descritti, dalla comunione dei beni per poter far la quale bisogna lavorare... fino alla comunicazione gioiosa di ogni notizia che riguardi la diffusione del nome di Gesù e del suo Vangelo.

Anche i carismi e i ministeri, questi doni e servizi specializzati che fioriscono nella comunità per l’utilità di tutto il corpo, rispondono praticamente a tutte le esigenze di una vita comunitaria.

Vi troviamo, ad esempio:

– i diaconi per l’amministrazione dei beni messi in comune affinché nessun bisognoso venga dimenticato;

– gli apostoli che annunciano e diffondono il Vangelo;

– i profeti che sembrano fra l’altro gli animatori dell’assemblea la quale per l’unità spirituale che manifesta è causa di conversione per chi non crede o per chi vi assiste soltanto come spettatore, tanto da essere costretti a proclamare che Dio è realmente presente nella comunità (1Cor 14, 24-25);

– coloro che hanno il dono dei miracoli, delle guarigioni e dell’assistenza, addetti cioè alla salute di tutto il corpo della comunità;

– gli incaricati dell’ordine e dell’armonia nel culto e nelle riunioni (1Cor 14, 26 ss.) poiché «Dio non è un Dio di disordine, ma un Dio di pace»;

– gli addetti all’insegnamento responsabili della formazione dottrinale dei membri della comunità;

– la comunicazione delle notizie: perché tutto il corpo sia uno, è un impegno di tutti i cristiani sia a livello interindividuale che fra Chiesa e Chiesa.

Ma Paolo ripete con insistenza che tutti questi servizi ai fratelli anche se sono doni dello Spirito, non sono niente se non sono motivati dall’amore che è il dono più grande di tutti, il solo capace di mantenere per così dire la specializzazione nella sua funzione di servizio e mai di potere.

Rifrazioni di luce

Ho detto prima che questi aspetti della vita cristiana sono stati visti da Chiara e diventati esperienza nella vita del Movimento fino dagli inizi dello stesso, quasi fossero delle categorie entro cui si muove la vita del cristiano che è l’amore. Chiara ha paragonato l’amore alla luce che, se passa attraverso un prisma trasparente, si scinde nei sette colori fondamentali dell’arcobaleno. Ecco come lei li ha delineati in un incontro di vescovi amici del Movimento.

«L’amore porta a mettere tutto in comune. La comunione dei beni, da quella spirituale a quella materiale è un aspetto dell’amore. Noi l’abbiamo chiamato “rosso”.

L’amore porta verso gli altri, l’amore è diffusivo per se stesso. Questa espansione dell’amore, con tutti i mezzi e i metodi d’apostolato, noi l’abbiamo chiamato “arancio”.

L’amore eleva a Dio e porta all’unione del cristiano con lui. Questo aspetto dell’amore, che riguarda la vita interiore e comprende le pratiche di pietà, noi l’abbiamo chiamato “giallo”.

L’amore nutre e risana l’anima come pure il Corpo mistico: è la sua salute. San Giovanni della Croce dice: “L’amore è la salute dell’anima”. Tutto quanto riguarda la salute del cristiano e del Corpo mistico di Cristo, da quella spirituale a quella fisica, noi l’abbiamo chiamato “verde”.

L’amore raduna in assemblea, fa d’un popolo la Chiesa. Quanto riguarda questa manifestazione dell’amore (che comprende le case, le chiese e quanto riveste od ospita i singoli e il popolo di Dio), noi l’abbiamo chiamato “azzurro”.

L’amore genera sapienza. Quello che riguarda è effetto dell’amore (con tutti i mezzi di comunicazione sociale che possono essere utili a generarla, a svilupparla, a mantenerla), noi l’abbiamo chiamato “violetto”.

Se osserviamo bene, tutti o quasi tutti questi aspetti dell’amore sono presenti nelle Regole dei fondatori. In tutte c’è l’aspetto economico della vita di comunità. Tutte portano uno specifico apostolato; così un itinerario verso Dio con particolari pratiche di pietà; tutte si occupano della salute dei membri, dell’abito, delle case, delle chiese che ospitano le comunità; ogni Opera e Ordine nella Chiesa cura lo studio, così come l’unità fra tutti con lettere, notiziari, bollettini.

Ciò che è stato riscoperto dal Movimento è che la vita del cristiano parte tutta da un principio in cui queste manifestazioni così diverse e varie confluiscono: l’amore.

Ora, siccome l’amore è proprio la volontà di Dio che Gesù ha manifestato nel Nuovo Testamento per tutti i cristiani, vivere questo amore, nelle manifestazioni che variano per ogni diversa vocazione, è certamente volontà di Dio» (Rocca di Papa, 27 febbraio 1981).

Cellule di vita trinitaria

Essendo categorie dell’amore, esse hanno una applicazione universale, tanto nella vita individuale quanto nella vita dei piccoli e grandi gruppi sociali. Per il Movimento esse sono i binari che regolano la vita dei focolari, dei nuclei dei volontari, delle unità Gen, ma anche dei grandi movimenti a largo raggio come Famiglie Nuove, Umanità nuova e Movimento parrocchiale. In quest’ultimo movimento, che qui ci interessa direttamente, questi aspetti hanno portato a sperimentare un nuovo modo di fare pastorale; ci sembra molto efficace perché parte dall’unità degli animatori per terminare all’unità dell’intera parrocchia almeno nel senso che ogni persona – dai più lontani spiritualmente ai più isolati o poveri materialmente – è sempre nel raggio dell’attenzione pastorale. Nelle parrocchie dove il Movimento è più sviluppato si sono infatti create delle équipes per ognuno di questi aspetti pastorali. Ma sono équipes i cui membri non agiscono se non hanno la garanzia di essere prima tra loro “un cuore solo e un’anima sola”, attuando così la norma fondamentale della vita cristiana che san Pietro esprime con le parole: «Prima di ogni cosa abbiate tra voi un amore reciproco e costante – ante omnia...» (1Pt 4, 7). Formare queste équipes a vivere tra loro e con le altre questa vita a mo’ della Trinità dovrebbe essere forse il primo pensiero di un parroco, anche perché è stato il primo pensiero di Gesù e poi degli Apostoli.

 

 

 

 

A mo’ di Appendice seguono alcune note sui vari aspetti della carità nei primi secoli della Chiesa.

Economia e lavoro

Roma era chiamata “presidente della carità” anche perché contava il maggior numero di assistiti, e proporzionalmente anche di entrate. Ogni comunità aveva la propria cassa comune alimentata dalle offerte dei fedeli e dai doni in natura: vestiti e generi alimentari.

Giustino: «Coloro che hanno dei beni aiutano i bisognosi... dando liberamente ciò che ritengono superfluo. Tutto ciò che viene raccolto è messo a disposizione di colui che presiede e che assiste gli orfani, le vedove, i malati, gli indigenti, i carcerati e gli immigrati...» (I Apol. 67, 1, 6).

La gestione di questi beni era affidata a un diacono, che di fatto veniva per importanza subito dopo il vescovo. La comunità di Costantina, in Africa, nel 303 conta su un guardaroba di 82 tuniche da donna, 38 scialli, 16 tuniche da uomo, 13 paia di scarpe da uomo e 47 da donna (CSEL 26, pp. 186-188) a disposizione dei bisognosi.

Tanti cristiani non si accontentano del superfluo, ma danno del loro necessario (Didascalia, V, I-6).

I più poveri digiunano per non presentarsi a mani vuote (Aristide, Apologia, 15, 7ss).

Tertulliano: mentre gli ebrei danno per legge e i pagani si tassano per scopi lucrativi, i cristiani coltivano la gratuità: sono persone nuove che si sentono finalmente riconoscenti al Padre di tutti e al Cristo di cui sono il corpo (Apol. 31, 5; 39, 6).

Ogni dono è espressione della fraternità, per cui la Chiesa rifiuta ogni offerta che sia frutto d’un guadagno o di un mestiere illecito (Didascalia, 18). Resta classico il fatto di Roma che restituisce all’eretico Marcione le sue grosse offerte.

Per i primi cristiani evangelizzazione e diaconia sono inseparabili perché mirano alla persona completa. Avevano uno slogan: «Imitate l’equità di Dio, e nessuno sarà povero» (Kerigma Petri); «Ricordatevi, o ricchi, che se avete ricevuto da Dio più del necessario è per condividerlo» (ibid.).

Irradiazione

Quando gli apostoli muoiono, i cristiani li imitano: la diffusione del Regno diventa loro responsabilità individuale e collettiva. Non si ha notizia di nessun missionario mandato dal vescovo o dal capo-comunità: basta la sola spinta della fede battesimale. Ci sono presbiteri, ma la maggioranza degli apostoli nuovi sono laici che gettano il seme del Vangelo nelle proprie famiglie, negli ambienti dove lavorano. Per la situazione politica non c’è più predicazione pubblica: tutto avviene per “contagio” (Tacito e Plinio), da bocca a bocca, da moglie a marito, da padrone a schiavo e viceversa, da commerciante a cliente. Il medico Alessandro porta al Vangelo numerosi pazienti.

C’è anche chi dà tutto ai poveri e fa il missionario itinerante (Eusebio, Storia Eccl. V, 10, 2).

Origene: «I cristiani sfruttano ogni mezzo ed ogni occasione per diffondere la loro dottrina dovunque» (Contra Celsum 3, 9).

Fin dagli inizi la donna ha un ruolo di primaria importanza nell’evangelizzazione. È Priscilla che evangelizza Apollo (Atti 18, 25).

Negli Atti apocrifi Tecla viene presentata come l’evangelista da san Paolo stesso. Ma in genere, soprattutto in Oriente dove la vita delle donne è più chiusa in casa, sono le donne a evangelizzare le donne. Clemente Alessandrino: ruolo di queste cristiane che penetrano nei ginecei dove gli uomini non possono entrare (Strom. III, 6, 53). Di qui nascono le diaconesse, a servizio delle donne e che visitano le donne cristiane in casa di pagani.

A Roma, dove la donna è più libera, il problema è meno sentito.

Presenti nella vita economica e sociale, i cristiani frequentano anche le terme. Policarpo riferisce che anche san Giovanni l’apostolo le frequentava (Ireneo, Adv. Haer. III, 3, 4). Le terme sono un mondo a sé: palestre per la cura del corpo e centri di cultura.

Molte conversioni avvengono alle terme: i cristiani sono il sale del mondo.

Quando gli schiavi e i loro figli vengono convertiti dai propri padroni cristiani diventano “fratelli” senza più alcuna discriminazione, poiché vengono a far parte della stessa comunità (Aristide, Apologia, 15, 6).

Preghiera

Tertulliano: il cristiano si raccoglie in preghiera all’alba e alla sera. Consiglia di inginocchiarsi al mattino in segno di adorazione.

Oltre al Padre nostro si mediti la Scrittura e si canti un salmo (Clemente Alessandrino, Strom. VII, 8; Ped. 11, 2).

Origene consiglia di destinare alla preghiera — se possibile — un locale della casa (De orat. 31, 4).

Il martire Ipparco dipinge una croce sul muro orientale della sua casa e vi prega sette volte al giorno (Acta Hipparchi).

La Didaché: i cristiani pregano tre volte al giorno: è il Padre nostro che lega tutti i cristiani di tutte le comunità e che perciò permette di pregare al plurale (8, 3). Atteggiamenti nella preghiera: in piedi, mani alzate, palme aperte come Cristo in croce (Tertulliano, Clemente, Origene) esprime meglio il movimento dell’anima e il desiderio di Dio (Clemente Al., Strom. VII, 40, 1). In ginocchio: esprime umiltà e supplica (Siria, Caldea e Irak).

Si prega prima dei pasti come ha fatto Gesù, e come fa ogni buon israelita per il quale il pasto ha un carattere religioso.

Sulla centralità della “celebrazione eucaristica” e della santificazione del “giorno del Signore” (cf Plinio, Ep. X, 96; Giustino, I Apol., 67; Giustino, Dial. 138, 1; Tertulliano, De corona, 3; Eusebio, Storia Eccl., 5, 24, 5; ecc.).

Opere di misericordia

Tertulliano accusa i pagani di commettere infanticidi quando espongono e abbandonano i bambini. Sono i cristiani che accorrono: il vescovo, come padre della comunità, affida le orfane a una famiglia cristiana, le segue fino all’età adulta e procura la dote per il matrimonio. Per gli orfani si preoccupa di fargli imparare un mestiere (Didascalia XVII-XVIII). Al tempo di papa Cornelio la Chiesa di Roma dà da mangiare a 1500 vedove e bisognosi (Eusebio, Storia Eccl., VII, 43,11).

Ma ogni comunità ha i suoi poveri. È per questo che la Chiesa vuole che si scelgano vescovi che amino i poveri: “Ricordati dei poveri, conducili per mano e nutrili” (Didascalia XIV, 3, 2) .

I diaconi li cercavano, studiavano la loro situazione (Giustino, I Apol. 67, 6) ne tenevano uno schedario. Ancora nel V se-colo si chiede ai diaconi di cercare negli ospizi pubblici se ci sono malati abbandonati o poveri (Test. di N. S., 11, 34). Le diaconesse si interessano delle vedove e delle donne povere o ammalate (Didascalia XV, 8, 3). Ma è tutta la comunità che si interessa ai loro casi, non solo dando una quota di denaro, ma offrendo tem­po e aiuto personale. Ogni cristiano, infatti, durante il catecumenato, deve fare questo tirocinio. Per essere promossi al battesimo devono rispondere a queste domande: «Hai visitato gli ammalati? Hai messo in pratica l’amore verso i bisognosi?» (Trad. Apost., 20).

L’imperatore Giuliano attribuisce l’espansione del cristianesimo all’amore dei cristiani verso gli stranieri e alla sepoltura dei morti (Sozomeno, S.E. V, 15). La Chiesa infatti non si preoccupava solo dei propri, ma di tutti i morti senza sepoltura, vittime di calamità pubbliche e dei naufragi. È ciò che colpiva i pagani (Lattanzio, Istit., VI, 12). I diaconi delle città costiere avevano come compito particolare di percorrere spesso le spiagge e, se trovavano morti, di vestirli e seppellirli (Test. di N.S., I, 34; II, 34). Tutte le spese di sepoltura sono a carico della comunità (Tertulliano, Apolog., 39, 6).

Carcerati: assistenza con cibi, denaro, ecc. (cf 1Clem. 59, 4; Ignazio, Ep. agli Smirnesi, 6; Tertulliano, Ad uxo­rem, 11, 4); Martirio di Perpetua, 3, 4; Aristide, Apol., 15; Giustino, II Apol. 2, 15-16; Eusebio, Storia Eccl., V, 1, 9-10; VI, 3,4).

Pirateria: a Cartagine la comunità raccoglie 400.000 sesterzi per rifondere le vittime dei pirati (Cipriano, Ep. 62, 3).

Aiuti tra le varie Chiese: Paolo per Gerusalemme; ma è un costume di tutta la Chiesa (Eusebio, Storia Eccl., III, 17): è l’elogio che si fa a Roma, presidente della carità (Ignazio, Dionigi di Corinto) che sostiene la comunità della Siria (Eusebio, Storia Eccl., VII, 5,2), quella della Cappadocia (Basilio, Ep. 70).

Casa e abbigliamento

Oltre all’aspetto sociale: uguaglianza fra cristiani; ricchi e poveri alla stessa mensa etc. Sono soprattutto i ricchi, naturalmente, che offrono la casa per il culto. San Pietro è ricevuto a Roma dal nobile Pudens. La sua casa serve per le riunioni dei cristiani. In Oriente è la “sala alta”, la più riservata. In Occidente alle volte è la sala da pranzo (triclinium). A Cartagine è all’interno del cimitero, riparato da muri, a cielo aperto. A Tripoli in Siria un certo Marco dice all’Apostolo: «La mia casa è grande, può contenere più di 500 persone, e c’è anche un giardino». Pietro risponde: «Fammi vedere casa e giardino». Li va a visitare e li trova molto adatti (Rec. Clem. IV, 6). Spesso queste case venivano poi regalate alla comunità per il culto. La riunione domenicale era ordinata non a capriccio (Giustino, I Apol., 67). I fedeli vestivano come tutti i giorni (anche perché la domenica si lavorava) così che all’uscita non si distinguevano dagli altri.

Tertulliano s’interessa all’abbigliamento delle donne (De vel. virg., 17): veli non troppo trasparenti, e attenti alla lunghezza e come disporli!

Per gli stranieri c’è la traduzione affinché tutti possano partecipare dal vivo. È alla celebrazione eucaristica che tutti, cittadini e contadini, prendono coscienza della loro famiglia spirituale. Da questa liturgia si parte per attuare nella vita quotidiana il mistero (opere caritative e sociali).

Formazione intellettuale

Tertulliano: «Non si nasce cristiani, si diventa», attraverso la vita e la conoscenza della dottrina. Il catecumenato è il tempo della catechesi e della formazione. Allora la professione di cristiano era un rischio (persecuzioni e pericolo di apostatare) per cui la Chiesa era molto esigente e prudente prima di ammettere al battesimo. Il periodo di prova è lungo: ci sono martiri che muoiono ancora catecumeni.

Giustino: «Quelli che credono alla verità del nostro insegnamento e della nostra dottrina» (I Apol. 1, 2): sono la «regola della fede trasmessa dai presbiteri» (Dimostraz. Apostol.)

Ireneo: «Questo è l’insegnamento, questa è la fede che la Chiesa ha ricevuto... Con la stessa fede ovunque nel mondo si professano queste verità... È la stessa fede quella che professano e trasmettono le chiese fondate in Germania, nelle Iberie, fra i Celti, in Oriente, in Egitto, in Libia e del centro del mondo (Palestina)» (C.H. I, 10, 2).

A quel tempo le religioni misteriche non hanno alcun noviziato perché non richiedono alcun cambiamento di vita. Non così il cristianesimo: esso è lotta (esempi sportivi e militari) e lo si sceglie con una decisione che comporta fedeltà anche davanti ai tribunali. Fin dall’anno 130 Giustino crea a Roma una scuola privata di dottrina cristiana. «Poter insegnare la verità e non farlo vuol dire meritarsi la collera di Dio» (Dial. con Trifone, 82).

Poi nascono le vere scuole di catechesi. Panteno, Clemente ed Origene ad Alessandria: si tratta di affrontare con competenza le prime eresie sulla fede e sulla morale in campo cristiano, la filosofia e gli attacchi alla dottrina cristiana in campo pagano.

Comunicazione

Lettere, legame di unità tra fratelli lontani: sono soprattutto i vescovi e le comunità che tengono una corrispondenza sempre più vasta. Si usavano tutti i materiali possibili, dal papiro, al metallo, ai cocci. Esse permettono a Roma di tenersi informata e di intervenire nei problemi locali, soprattutto in tempi di crisi. Una lettera di papa Clemente alla chiesa di Corinto si leggeva in chiesa ancora dopo un secolo (Eusebio, Storia eccl. IV, 23, 11).

L’eresia di Montano provoca una fitta corrispondenza tra Roma, la Francia e l’Asia minore (ibid.). Dionigi di Corinto raccoglie tutto un epistolario con le lettere tra Roma e le varie comunità della Grecia e dell’Asia Minore motivate da posizioni rigoriste di alcuni cristiani (ibid. IV, 23). Fin dal II secolo i vescovi si comunicano la propria nomina, si scambiano notizie sui conflitti dottrinali e su provvedimenti disciplinari.

Durante le persecuzioni: lettere sulle gesta dei martiri a scopo di informazione, di istruzione ed edificazione. Lettera di Vienne e Lione alle Chiese di Asia e della Frigia, via Roma, sui martiri di Lione.